Da Elena Gerla riceviamo Claudio Magris, Alla cieca, Garzanti editore.

“… La rivoluzione deve essere magnanima; se no, non è più rivoluzione. Se comincia a punire i nemici vinti, anche i mascalzoni, ci prende gusto e non finisce più di punire, di uccidere, non può smettere; sterminati i veri nemici  deve far fuori chi non voleva sterminarli subito, poi altri ancora, tutti, deve distruggere se stessa e così si toglie di mezzo. È successo tante volte, i suoi nemici, i nemici del popolo, non occorre facciano niente, hanno solo da star lì a guardare  e ad aspettare che il popolo si tagli la testa. Non bisogna permettere che si inneschi questo meccanismo; bisogna stroncarlo subito, prima che prenda piede, che inizi. ….”

alla cieca

Dalla presentazione dell’editore:

Questo è il testo dell’intervento di Corrado Stajano in occasione della presentazione del romanzo di Claudio Magris Alla cieca a Milano, all’Osteria del Treno, il 19 maggio 2005.

Devo subito raccontare come ho sentito la prima volta il nome Magris. Con Ermanno Olmi, tanti decenni fa, lavoravo a un documentario sulla lettura in Italia. Si chiamava La fatica di leggere. Dalla Sicilia al Piemonte, nelle case editrici, nelle librerie, nelle biblioteche a sentire persone del mestiere, intellettuali famosi, Montale, Raffaele Mattioli, tanti altri, e persone qualsiasi. Nelle Langhe andammo a Dogliani dove Giulio Einaudi aveva messo su una bellissima biblioteca dedicata a suo padre, legata alla vita del paese, familiare agli abitanti. Dentro la biblioteca c’era un vecchio che cercava un libro sugli scaffali. “Che libro sta cercando?”, gli chiedemmo Ermanno e io. E lui: “Il mito asburgico di Claudio Magris”.
Ho trovato miracolosamente la trascrizione. “Voglio sapere”, ci disse, “la storia di quei magnati d’altri tempi; d’altra parte gli Asburgo sono stati molto importanti anche in Italia, eh! Perché ho fatto la guerra anche contro gli Asburgo, io! E quindi mi piace sapere”.
Era un contadino, si chiamava Giuseppe Bassignana. Ci disse anche: “Sì, faccio il contadino. Se qualcuno mi avesse fatto studiare i libri, non sarei un contadino, se fossi stato a contatto di una bella libreria come c’è qui, certamente che io non avrei fatto il contadino, ve lo assicuro, ve lo assicuro. Sanno qual è la mia idea? Di progredire e di far meglio tutto quel che si può, progredire, sempre progredire”.
Non sapevo chi fosse Magris. Forse era una sigla, un nome da romanzo. Lessi il libro forse mentre lo leggeva il contadino. Poi lessi tutti i suoi libri. Poi conobbi Magris, all’Einaudi, credo. Ma penso che quel contadino che trasformava per me il mito absburgico nel mito gramsciano rappresenti la più nobile medaglia al valore alla quale possa ambire uno scrittore.
In tutti questi giorni ho letto questo nuovo libro di Magris, Alla cieca, come da ragazzo nelle estati che non finivano mai e via via che le pagine si assottigliavano ne ero dispiaciuto perché il libro è come un pentolone d’oro ribollente delle meraviglie e degli orrori del mondo, uomini e donne, eroismi e tradimenti, bassezze e grandezze, passato e presente. Un gran libro, un libro della vita. E quando qualcuno mi chiedeva, mentre stavo lì a leggere, “Com’è il libro di Magris?”, io non sapevo rispondere altro che: “E’lui”. Perché in ogni pagina vedevo Claudio in filigrana, la sua figura, sentivo la sua voce, il suo modo di parlare, una sorta di recitar cantando. E tra la storia di Jorgen Jorgensen, ex re d’Islanda e la storia del compagno Cippico, torturato a Goli Otok, l’isola calva, l’isola nuda, il gulag in cui il maresciallo Tito chiuse i comunisti italiani che da Monfalcone erano emigrati in Jugoslavia nel 1947 per costruire il socialismo, c’era sempre lui, Claudio, coi suoi mondi non traditi. Coi suoi personaggi amati, i ribelli, i rinnegati, le vittime, i sovversivi di ogni tempo. Sullo sfondo del mare sempre protagonista nei suoi libri, ma qui ancora di più, tra navi, polene, isole e fiordi, sullo sfondo di quelle amorevoli e indimenticabili pagine dedicate a Maria. Mentre gli scrittori amati, Svevo, Joyce vanno a fargli visita – questa è una mia fantasia – al Caffè San Marco di Trieste dove Magris ha un tavolo riservato e dove scrive. Un caffè glorioso che deve essere di sua proprietà. Con Sevo e Joyce, Conrad, Musil, Goya, Bosch. E forse Kafka e Canetti.
Che cos’è Alla cieca? Devo dichiarare la mia incompetenza letteraria aggravata dall’amicizia. E’ un gran poema narrato da un eterno ribelle, da un ammutinato perenne, da un disertore che ha la dolce pazzia di Amleto. Dove i fatti dell’esistenza dei due personaggi si incastrano tra loro e l’io narrante balla e traballa tra l’uno e l’altro, l’ex re d’Islanda e reduce di Dachau e poi di Goli Otok, con innumerevoli comparse intorno che entrano in scena, escono, ritornano, fuggevoli presenze, tutti quanti impegnati a dare un’identità a quell’io. Che mescola tempi, luoghi, persone, accadimenti in una specie di giudizio universale, di redde rationem.
E’un libro di avventura in cui i secoli si fondono tra loro e le persone si amano, si odiano, si uccidono e l’io che racconta è tutto, tutti e nessuno. E’ anche una seduta psicoanalitica, un interrogatorio di polizia, un processo. Mi pareva, leggendo, di essere trascinato dalla corrente del mare e mi lasciavo andare. (Già, grazie a una penna e un po’ di carta si risistema la vita, è questo lo scrivere, secondo Claudio Magris).
Ho letto non so dove, in un’intervista, che Magris nega che il suo sia un libro politico. Si difende come tutti gli uomini di frontiera sempre in allarme. A me sembra, invece, che questa polena che va alla cieca sia l’assoluto della politica, vada oltre la politica, sia la politica della vita e questo non è un gioco di parole.
Magris, si sa, è uno stimato professore d’università, un germanista, una persona perbene che scrive sul “Corriere della Sera”. E’inquieto, ma inquieti lo sono in tanti e lui riesce a mascherarsi. Ha sempre una borsa in mano, deve sempre partire, per una stazione, per un aeroporto. Ma in effetti – lo si capisce da questo libro se non ci fossero altre avvisaglie – è un avventuriero, un corsaro, un guerrigliero, un galeotto innocente. E’ anche un generale imperialregio o un commodoro, un ammiraglio di divisione o, meglio, di squadra navale. Sono stato suo compagno di banco al Senato della Repubblica, conosceva tutti, i potenti e anche i poco illuminati, ma aveva una naturale autorità soprattutto con i senatori più repellenti, quelli che si trovano nelle osterie del suo libro e ogni suo desiderio, neppure del tutto espresso, era per loro un ordine e io godevo della loro benevolenza riflessa perché mi sapevano suo amico.
Magris sostiene (forse) che il suo non è un libro politico e certamente secondo la dizione corrente non lo è. Ma nelle pagine di Alla cieca affiorano delle confessioni che fanno da specchio a quel secolo terribile che è stato il Novecento: “Finché te le danno gli altri, i nemici, i farabutti, è una cosa che, se hai fegato, puoi sopportare. Il peggio viene quando a metterti nella fossa dei serpenti sono i tuoi, e dopo un po’ non sai più se quelli sono i tuoi o se sono le carogne che con i tuoi hai sempre cercato di spazzar via. E dopo ancora un po’ non sai nemmeno più se anche tu sei dei nostri o sei diventato uno dei loro. Ecco perché dopo Goli Otok non si sa più bene quali sono i nostri”.
Il nuovo libro di Claudio Magris mi sembra un tralcio da cui si dipartono rami lunghi, rami corti che poi si ricompongono. Leggi e trovi dei significati, poi rileggi e ne trovi altri.
Due citazioni: “La storia è un cannocchiale accostato all’occhio bendato”. “Il mondo è una foresta di impiccati”. Ma ci sono poi pagine di morbida dolcezza, la sua terra, il suo mare, ai quali è rimasto fedele come un figlio.
Questo è il bel poema di tutta una vita, di tante vite che Claudio libera dal male senza compiacenze e riscatta dal feroce dolore. E’ anche un romanzo corporale, denso di odori, di carne marcia, di morte, di colori, di bandiere rosse ammainate. Il lettore è incantato, coinvolto, partecipe in questa Spoon River del mondo, in questo estremo giorno del giudizio.
Claudio Magris, con questo libro unico, di dramma e di dolore, ma anche di desiderio di vita, ha pagato tanti debiti del mondo. Ha fatto un po’ di giustizia. Grazie.