Questa è la prima auto-segnalazione di un autore e sono contento che sia Morena Fanti.

Morena ci segnala, così come richiesto dal nostro concorso, due testi: uno proprio (La centesima finestra) e uno di un autore (Stephen King) la cui opera è, per così dire, un riferimento per lei.

Noi li pubblicheremo in sequenza, prima l’uno e poi l’altro, qui sotto.

Eccoli:

La centesima finestra di Morena Fanti: fanti

“… e lo baciò sulle labbra, molto dolcemente e per un tempo che a Dario sembrò imbarazzante. Ma forse era solo invidia la sua, forse avrebbe voluto essere lui il prescelto per quel primo bacio.
Il bacio finì, Annalisa si staccò da Fabio e tornò verso il divano. Il silenzio era denso, morbido come un tessuto di felpa, e i respiri erano accelerati. Lei gli tese la mano e Dario si attaccò a quella presa per sollevarsi in piedi. Annalisa gli si avvicinò piano; le sue labbra erano morbide e calde, e anche il suo corpo lo era, quando le braccia di Dario si avvolsero attorno alla sua schiena e a quei jeans firmati che lui aveva notato poco prima. Non fu un bacio di sole labbra, fu la sensazione di un liquido caldo che scivolava dentro e riempiva i buchi, gli anfratti, le crepe di anni di intonaco scrostato e di cantine buie e sporche. Fu un rimestare nella polvere e un lucidare vecchie cartoline del mare di quando erano ragazzi, fu un suonare di sera nelle osterie e un girare senza meta nel buio della città. Questa era la sensazione che ne ebbero a livello sotterraneo, ma la sensazione più in superficie fu che il corpo di Dario reagì immediatamente a questo bacio. Annalisa aveva sentito l’eccitazione di Dario nelle mani che frugavano sotto alla maglia e nella lingua che cercava la sua, e ora la sentiva anche nell’erezione che spingeva attraverso i jeans. Anche Dario sentiva delle risposte mentre la voglia cresceva. Fece per sfilarle la maglia, ma lei lo fermò, si girò a metà e allungò una mano verso Fabio che era ancora seduto sul letto.
Lui si alzò e venne verso di loro. Non ci fu nessun disagio quando lei si allungò per baciarlo allo stesso modo. …”

On Writing, ovvero Autobiografia  di un mestiere, Sperling & Kupfer, di Stephen King:

king

Che cos’è scrivere?

Telepatia, naturalmente. È buffo, quando ci pensi: per anni si è discusso della sua ipotetica esistenza, persone come J.B. Rhine si sono scervellate nel tentativo di mettere a punto un valido procedimento per isolarla, quando era lì da sempre, in bella vista, come la Lettera Rubata del signor Poe. Tutte le arti dipendono in certa misura dalla telepatia, ma io credo che scrivere ne sia la quintessenza. Forse il mio è un pregiudizio, ma anche se così fosse, tanto vale comunque limitarci a trattare di scrittura, giacché è appunto per riflettere e parlare di scrittura che siamo qui.

Il mio nome è Stephen King. Sto scrivendo la prima stesura di questo capitolo alla mia scrivania (quella sotto lo spiovente) in una nevosa mattina del dicembre 1997. Ho delle cose in mente. Alcune sono preoccupazioni (gli occhi che non funzionano a dovere, i regali di Natale che non ho nemmeno cominciato a comperare, mia moglie che si è ammalata per una infreddatura), altre sono cose belle (il nostro figlio più piccolo ci ha fatto una visita a sorpresa dal college, io dovrò suonare Brand New Cadillac dei Clash con i Wallflowers a un concerto), ma al momento tutto questo è di sopra. Io sono in un altro posto, una cantina, dove ci sono un gran numero di luci brillanti e immagini nitide. È un posto che ho costruito per me nel corso degli anni. È un posto da cui si guarda lontano. So che è un po’ strano, è un po’ una contraddizione, che un posto da dove si guarda lontano debba essere anche una cantina, ma così è per me. Se costruisci da te il tuo posto da cui guardare lontano, puoi metterlo in cima a un albero o sul tetto del World Trade Center o sul ciglio del Grand Canyon. È il tuo «little red wagon», come dice Robert Mccammon in uno dei suoi romanzi.

Voi, che leggete adesso questo libro, vi trovate un po’ più giù di me lungo il fiume del tempo… ma siete probabilmente nel vostro luogo da dove guardare lontano, quello dove andate a ricevere messaggi telepatici. Non che dobbiate esserci; i libri hanno la singolarità di essere magie portatili. Io di solito ne ascolto uno in macchina (sempre in edizione integrale; credo che gli audiolibri in edizione ridotta siano una disgrazia), e ne porto un altro con me ovunque vada. Non si può mai prevedere quando hai bisogno di una via di fuga: una coda di chilometri a un casello, i quindici minuti che devi trascorrere nell’atrio di una tetra palazzina di college prima che il tuo consulente (trattenuto in ufficio dallo sclerato o sclerata di turno che minaccia di suicidarsi perché sta per essere bocciato in qualche cazzuta materia) esca a metterti la firma su una ricevuta, sale d’aspetto negli aeroporti, lavanderie automatiche in pomeriggi piovosi e il peggio del peggio, vale a dire lo studio del medico, quando lui è in ritardo e tu devi aspettare mezz’ora per farti bistrattare qualche parte sensibile. In questi momenti trovo un libro vitale. Se dovrò passare del tempo al purgatorio prima di trasferirmi di qui o di là, credo che potrei cavarmela se ci troverò una biblioteca che dà i libri a prestito (se c’è, è probabilmente rifornita solo di romanzi di Danielle Steel, ha-ha, beccati questa, Steve).

Così io leggo dove posso, ma ho un luogo prediletto e probabilmente è così anche per voi, un luogo dove la luce è buona e le sensazioni sono più forti. Per me è la poltrona blu nel mio studio. Per voi può essere il divanetto in veranda, la sedia a dondolo in cucina, o magari è il letto, dove sedersi appoggiati al guanciale: leggere a letto può essere paradisiaco, sempre che abbiate la giusta intensità di luce sulla pagina e stiate attenti a non versare il caffè o il cognac sulle lenzuola.

Diciamo dunque che voi siete nel vostro preferito luogo di ricezione proprio nel momento in cui io sono nel mio miglior luogo di trasmissione. Dovremmo eseguire il nostro esercizio mentale coprendo non solo una distanza di spazio ma anche di tempo, ma questo non è un problema; se sappiamo ancora leggere Dickens, Shakespeare e (con l’aiuto di qualche nota o due) Erodoto, penso che sapremo trovarci tra il 1997 e il vostro anno. Ed ecco qui, autentica telepatia in azione. Noterete che non ho niente nelle maniche e che non muovo le labbra. Né probabilmente si muovono le vostre.

Guardate: qui c’è un tavolo con una tovaglia rossa. Sul tavolo c’è una gabbia grande come un piccolo acquario. Nella gabbia c’è un coniglio bianco con il naso rosa e gli occhi cerchiati di rosa. Nelle zampe anteriori ha un mozzicone di carota che sta sgranocchiando tutto contento. Sulla schiena, chiaramente segnato in inchiostro blu, c’è il numero 8.

Vediamo la stessa cosa? Dovremmo incontrarci e confrontare gli appunti per esserne matematicamente sicuri, ma io credo di sì. Ci saranno inevitabili varianti, si capisce: alcuni riceventi vedranno una tovaglia color rosso robbia, qualcuno la vedrà scarlatta, altri vedranno altre gradazioni. (Per i riceventi daltonici, la tovaglia rossa è del grigio scuro della cenere di sigaro.) Qualcuno vedrà orli merlettati, qualcuno lisci. Gli animi più decorativi vi aggiungeranno un po’ di pizzo… ma per piacere: la mia tovaglia è la vostra tovaglia, sbizzarritevi pure.

La gabbia lascia parimenti ampio spazio all’interpretazione individuale. Per cominciare è descritta in termini di paragone approssimativo, utile solo se voi e io vediamo il mondo e misuriamo le cose con occhi simili. Nel fare paragoni approssimativi è facile essere sbadati, ma l’alternativa è una pignolesca attenzione ai dettagli che toglie tutto il piacere alla scrittura. Che cosa dovrei dire, «sul tavolo c’è una gabbia lunga novantacinque centimetri, larga sessantadue e alta trentacinque»? Questa non è prosa, è un manuale. Il paragrafo non ci dice neppure di che materiale è fatta la gabbia (rete metallica? stecche d’acciaio? vetro?), ma ha importanza? Abbiamo capito tutti che possiamo vederci dentro; oltre a questo, non c’importa. L’elemento più interessante qui non è nemmeno il coniglio che sgranocchia la carota dentro la gabbia, bensì il numero che ha sulla schiena. Non un sei, non un quattro, non un diciannove virgola cinque. È un otto. È questo che stiamo guardando e lo vediamo tutti. Non ve l’ho detto io. Voi non me lo avete chiesto. Io non ho mai aperto bocca e voi non avete aperto la vostra. Non siamo nemmeno nello stesso anno insieme, meno che mai nella stessa stanza… eppure noi siamo insieme. Siamo vicini.

Si sono incontrate le nostre menti.