Un concorso come il nostro si basa sulla parola. In principio, si sa, era il verbo, ma si sa anche che un verbo senza un soggetto o un complemento oggetto è di difficile comprensione. Per questo vengono scritti romanzi e saggi e poesie zeppi di soggetti, verbi e complementi. A volte anche troppo. D’altronde se la parola scritta non fosse stata inventata, avrebbero probabilmente vinto le formiche, che pur senza libri sono perfettamente organizzate, e come conseguenza ultima, ma non per questo non meno importante non ci sarebbe stato neanche questo nostro concorso.

Ebbene, quale è stata la parola più ricorrente nelle pagine e nei testi che sono stati segnalati lo scorso inverno? Crescere, crescita, rinnovarsi, rinascere. Non è stata certo l’unica, ma la prevalente. Per questo voglio iniziare da qui.

E’ così, per esempio, la biografia di Gerda Taro di Helena Janeczek (La ragazza con la Leica), segnalata da Marco Cortini, Gerda fotografa, comunista, morta ventisettenne durante la guerra civile spagnola: leggendola si avverte il gusto acuto di una personalità forte in costante divenire. Piena di energia, straboccante, dionisiaca, come direbbe il mio amico Mancuso, bellissima e innamorata della vita, sullo sfondo di una Europa degli anni trenta sconvolta dal nazismo nascente, lei in fuga dalla Polonia che arriva a Parigi, si innamora, diventa fotografa per amore e col fidanzato ungherese si inventa il famoso fotografo Robert Capa, per poi morire schiacciata da un carrarmato durante la ritirata dopo la battaglia di Brunete.

Così la Janeczek fotografa quegli anni in Francia:

“Il primo maggio del glorioso 1936 un fotografo zigzagava contro il senso di marcia della sfilata quasi immobile, e Ruth, insofferente di quell’epica lentezza, si era alzata sulle punte e sbracciata per chiamarlo. Avevano preso Parigi, erano una tale massa che il risultato reso noto due giorni dopo, ossia la vittoria del Fronte Popolare, non pareva che il conteggio definitivo di una realtà già misurata in corpi, pacifici, festosi, profumati di mughetti e garofani: fiori unitari per una manifestazione unitaria, la processione rossa convocata in place de la Bastille con il motto pour le pain, la paix et la liberté e la richiesta sindacale, concreta e rivoluzionaria, della settimana lavorativa di quaranta ore.”

Si cresceva singolarmente e socialmente e qualcuno moriva per questo.

O ancora Il lettore di Schlink che ci ha mandato Paolo Coletti, storia al contempo di una iniziazione sessuale e sentimentale e di una volontà di dimenticare e cambiare pagina e, ancora una volta, crescere. Il protagonista, nelle pause del corpo, viene invitato dalla sua amante a leggerle i classici della letteratura, lei analfabeta, lui studente, lei, si scoprirà, ex lavorante nei campi nazisti, lei responsabile insieme ad altre lavoranti della morte di innocenti chiusi in una chiesa data alle fiamme. La nuova Germania incontra la vecchia Germania, impara e insegna, perdona nel silenzio, assiste consapevole, anni dopo, al processo che la condanna. Lui, il protagonista cresce anche facendo i conti con l’improvvisa scomparsa di lei e con la terrificante scoperta di quel suo passato non confessabile.

Al tempo stesso mi chiedo, e cominciai a chiedermelo già allora: ma cosa doveva e deve farsene, la mia generazione di nati dopo, delle informazioni sulle atrocità dello sterminio degli ebrei? Noi non dobbiamo pensare di poter comprendere ciò che è incomprensibile, non possiamo comparare ciò che è incomparabile, non possiamo indagare, perché chi indaga sulle atrocità, anche se non le mette in discussione, ne fa comunque un oggetto di comunicazione e non ottiene che qualcosa di fronte a cui può solo ammutolire per l’orrore, la colpa e la vergogna. Dobbiamo solo ammutolire per l’orrore, la colpa e la vergogna? A quale scopo? No, non è che l’ardore della rielaborazione e lo zero di far luce, con cui avevo partecipato fossero andati perduti durante il dibattimento. Ma che solo pochi venissero condannati e puniti e che noi, la generazione venuta dopo, ci ritrovassimo ammutoliti dall’orrore, dalla colpa e dalla vergogna: era giusto che fosse così?“

Ma una storia simile è raccontata, anche se in chiave del tutto diversa e spesso più lieve, da Vassalli nell’Oro del mondo che ci invita a leggere Gabriella Ventura, la storia di un ragazzino nel dopoguerra italiano, affidato allo zio, che diventa uomo facendo le esperienze più strane e diverse e ascoltando racconti come questo:

«Tutti quei morti, — disse ancora lo zio Alvaro, — sono morti per niente, e il resto è merda: la guerra, il seguito, tutto». Rimase a lungo in silenzio. «Se ti dicessi, — riprese, — che tra i sopravvissuti c’è stato anche chi ci ha fatto la carriera, su quella strage, tu forse non mi crederesti. Invece il carrierista c’è stato. Così come ci sono stati quelli che all’indomani della strage si sono offerti di passare coi tedeschi, senza che nessuno ce li costringesse, bada bene! Di loro scelta. Volontariamente. Quasi mille italiani, a Cefalonia, sono poi diventati collaborazionisti, subito dopo il massacro; hanno aiutato gli assassini a liberarsi dei cadaveri, a rimettere in sesto le difese costiere, a falsare le carte dell’eccidio e, infine, il tocco d’artista: quando i tedeschi si sono ritirati, loro si sono finti partigiani e sono rientrati in Italia con gli onori delle armi… Non mi vuoi credere? Ti dà nausea? E allora, se sei debole di stomaco, devi lasciar perdere quel tuo romanzo. La storia è merda, Sebastiano. Secolo dopo secolo. Tonnellata dopo tonnellata. Un immenso letamaio e basta»

L’Europa dei nostri padri e nonni è questa. Questi sono i racconti e le esperienze che li hanno temprati, che ci hanno temprato. Tutto diverso sembra il clima anglosassone.

Nella Banda dei Brocchi di Sebastian Coe, forse il suo libro più noto, inviataci da Grazia Pietrini, quel crescere è disincanto, allegria e tristezza insieme. Siamo nell’Inghilterra degli anni sessanta e uno dei temi è:

Era la gloriosa rinascita del singolo da due minuti. Basta assoli di chitarra. I concept albums erano finiti. I Mellotron? Verboten. Erano gli albori del punk o, nell’azzeccata definizione di Tony Parsons, del rock da sussidio di disoccupazione”

E più o meno lo stesso capita in Beautiful Music di Michael Zadoorian, inviatoci da Marco Grando. Qui la voce narrante è quella di Danny Yzemski, ragazzino che cresce nella Detroit tra gli Anni 60 e 70, sconvolta dagli scontri razziali e volta ormai a un epocale cambiamento. Danny è un ragazzo sveglio e maturo, pacato e così equilibrato da sembrare un anziano pensionato che ha fatto i conti con la vita, rifuggendo ogni emozione eccessiva. Ha un padre entusiasta e saggio, che lo sprona a mettersi in gioco prendendo qualche piccolo rischio, e una madre malinconica e bipolare, che sogna per lui un futuro al college e un buon impiego di tutto rispetto. Danny ama la musica e adora ascoltare la radio, due passioni che condivide con il padre, anche se i loro gusti sono nettamente differenti. Sono gli anni del rock, dei capelloni, dei jeans strappati, delle linguacce ai concerti e dei testi rivoluzionari; gli anni che segnano nettamente il confine tra la musica di prima e quella del dopo, scavando gap generazionali dentro cui genitori e figli si allontanano fino a perdersi.

Potrei sentirmi come uno dei tantissimi ragazzi che lo compreranno, senza volto e senza nome, ma non è così che mi sento. Piuttosto, mi sembra di appartenere a una comunità. Guardo gli altri ragazzi nel reparto dischi e penso che non siano poi tanto diversi da me. Hanno i capelli più lunghi, i vestiti sformati, con le toppe, diversi dai miei, ma sono pur sempre ragazzi. Per la prima volta, mi sento uno di loro. Faccio parte del gruppo.”

Ma allo stesso filone, anche se con ovvie differenze, si iscrivono anche L’amica geniale della Ferrante, inviata da Grazia Pietrini, cavalcata nella Napoli dagli anni sessanta ai giorni nostri, o Rinata, i diari di Susan Sontag, mandataci da Paolo Pomodoro, nel quale si respira la New York di quegli stessi anni.

Apparentemente più lontana, ma ancora una volta centrata sul rinnovamento è il romanzo Hotel Silence della islandese Olafsdòttir che ci ha segnalato Rosa Ghislandi. Qui il protagonista è un uomo maturo che viveva per le sue tre donne: la madre, la moglie e la figlia. La madre si ammala ed è presto demente. La moglie divorzia e come ultimo regalo gli dice che la sua amata figlia in realtà non è figlia sua. Per di più, come dicevo, siamo in Islanda, paese da suicidio per antonomasia. E quindi anche lui decide di ammazzarsi, ma decide anche di farlo lontano, per non dare dolori inutili alla figlia. Meglio un padre scomparso, pensa, che un cadavere appeso. Quindi parte e va in un posto dove un morto non può costituire una sorpresa: una città nei Balcani, distrutta, appena uscita da una guerra civile. Solo che lì conosce due ragazzi, un fratello e una sorella, che hanno bisogno di lui. Di lì la vita riparte.

Anzichè smettere di esistere non puoi smettere di essere tu e diventare un altro?”

Se questo è il tema che più mi ha colpito, ci sono state poi strane assonanze. Per esempio quelle tra i libri segnalati da Anna Valentini, Grazia Pietrini e Gabriella Ventura. Tutti e tre i romanzi (Berta Isla di Marias, Miele di McEwan e Il poeta di Gaza di Sarid) raccontano storie di menzogne quotidiane, di vite doppie, di agenti segreti, in una dimensione familiare e affettiva stravolta dallo spionaggio.

Oppure un altro tema ricorrente è quello delle storie di famiglia, come Mio fratello di Pennac che ci ha segnalato Marco Cortini, o Una spola di filo blu di Anne Tyler, inviataci da Rosa Ghislaldi, o a suo modo Resto qui di Balzano mandato da Marco Grando, storia quest’ultima di un’epica struggente, con una famiglia altoatesina rimasta ancorata al proprio paese anche quando è previsto venga invaso dalle acque di una nuova diga. Da quest’ultimo romanzo due citazioni. La prima che dà conto di quanto appunto i luoghi possano essere fondamentali per una definizione di sé. La seconda, curiosa e divertente, ha in qualche maniera a che fare con i tempi che stiamo vivendo:

“Se per te questo posto ha un significato, se le strade e le montagne ti appartengono, non devi aver paura di restare”

“Tua nonna era spigolosa e severa, aveva le idee chiare su tutto, distingueva facilmente il bianco dal nero e non si faceva problemi a tagliare con l’accetta. Io invece mi sono persa in una scala di grigi. Secondo lei era colpa dello studio. Considerava chiunque fosse istruito una persona inutilmente difficile. Uno scioperato, un saccente, uno che sta a spaccare il capello in quattro. Io invece credevo che il sapere più grande, specie per una donna, fossero le parole. Fatti, storie, fantasie, ciò che contava era averne fame e tenersele strette quando la vita si complicava o si faceva spoglia. Credevo che mi potessero salvare, le parole.”

Una famiglia a sé è quella descritta da Manzini in Orfani bianchi che ci manda Laura Frera, una famiglia costituita da una madre emigrata in Italia per fare la badante e un figlio, piccolo, rimasto al paese che trova nel prete una strana figura di padre. Il rapporto col figlio è tenuto via email che la madre scrive al prete da far leggere al figlio e quando è stanca o demoralizzata il prete le risponde così:

“Cara Mirta, con Ilie ci parlerò io. Ma credo che la cosa migliore da fare è continuare a scrivergli. Tutto quello che ti succede. Così magari ha la sensazione di averti qui accanto. E non preoccuparti se quello che scrivi è noioso. Per lui non lo è. Si beve con gli occhi le tue lettere. …”

Sul tema della famiglia, infine, inevitabile citare la poesia inviataci da Fernanda Sacchieri di una autrice canadese, Anne Michaels, che recita così:

Una famiglia è uno studio di zolle tettoniche, scorrimento e pieghe.
Qualcosa dentro slitta; improvvisamente siamo più vicini o separati-

Ci sono cose che fratelli e sorelle sanno
quel genere di dettagli che usano le spie
 per provare la loro identità
paure che scivolano dentro l’erba alta dell’infanzia,
cose che saettano fuori più tardi; e piaceri come tucani,
il loro splendore che tira giù i rami.

Chi se non un fratello chiama da un altro emisfero
per leggere un passo che descrive quello strano
tratto nell’evoluzione, quando i rettili sembravano
tavolini da salotto coperti di pelle di coccodrillo
adolescenti dell’evoluzione, un caso grave di tremarella
durante il massimo splendore dei terapsidi-
ricordando che quelle erano creature che amavamo di più,
con arti massicci e dorsi come vele.

La memoria è selezione cumulativa.
E’ un cavo sottomarino che connette un continente a un altro,
elettrico nella salsedine nera della distanza.

Ma il libro che mi ha maggiormente affascinato, probabilmente per affinità anagrafiche, è stato quello di Sheppard, Quello di dentro, inviato da Marco Cortini, viaggio nella memoria personale, alla ricerca di un se stesso in parte perduto. La figura femminile descritta in questo flash è un ricordo, una scoperta, un se stesso che torna.

“Adesso lei è in piedi in un vestito bianco di raso, attillato. Con niente sotto. Il vestito ha un riflesso perlaceo, quasi azzurrognolo. Luccicante. Luminescente. Cade a terra ammucchiandosi ai suoi piedi, come in una statua greca. Il suo corpo è giovane. Il viso no, e non mi guarda mai direttamente. Sembra proprio che non mi riconosca, anche se so di averle ronzato attorno per anni. Ha l’occhio destro tutto rosso e gonfio e spalancato.”

Un capitolo a sé è costituito dal concorso La città nel cuore. In questa piccola sezione Milano ha ricevuto due segnalazioni, con i libri di Nove (brevi racconti – da Gabriella Ventura) o Marotta (che ci ricorda la Milano degli anni sessanta – da Lorenza Rappoldi). Roma, invece, è stata ricordata con un libro della Fallaci (da Fernanda Sacchieri), mentre su Faenza è arrivato un testo che ne spiega i misteri (da Ramsis Bentivoglio, che ci ha mandato anche il divertente e intelligente classico La verità sul caso D.)  Helsinki (da Laura Frera), infine, è stata per così dire ritratta attraverso una delle tante storie ambientate lì da quel genio comico che è stato Paasilinna. Questa idea della città del cuore vorrei riprenderla anche nella prossima edizione, magari spiegandola meglio. I libri, i romanzi sono spesso fortemente connotati da una precisa geografia che per chi legge può costituire un pensiero laterale rispetto alla storia narrata. Penso ad alcuni gialli ambientati a Milano o Parigi e non c’è bisogno di citare gli autori. Uno segue la storia e intanto riassapora e ricorda quelle strade, quelle piazze, quegli odori e quelle luci. Ecco uno dei temi per questo inverno.

Due casi a parte sono stati i libri mandatici da Milena Marani e da Tiziana Ruggeri. Milena ci racconta un viaggio in Italia di Rumiz attraverso le nostre montagne e la loro gente. Alpi, Appennini, est, ovest, nord, sud, l’Italia è nazione di montagne, che come ricordava anche Resto qui, già citato, più di ogni altra geografia tende a trattenere e a segregare il proprio spirito, differenziandolo da ogni altro, anche da ogni altra montagna, da ogni altra valle anche contigua. Rumiz ci racconta storie, una più bella dell’altra, in una scoperta appunto dell’ennesima varietà del nostro territorio. Tiziana, invece, innamorata delle sue Marche e dell’arte, ci segnala una sorta di biografia marchigiana di Lorenzo Lotto, pittore veneziano, che fu a Recanati nel 1508 per dipingere, tra gli altri, il grande polittico della Chiesa di San Domenico. Immagini stupende, critica d’arte e aneddoti.

Di segnalazioni ce ne sono state tante altre. Per finire ne voglio ricordare solo ancora due, perché esplorano l’universo femminile da due punti di vista strettamente legati alla letteratura. Questo è il tema che da qualche anno affascina Lorenza Rappoldi, che già l’anno scorso ci aveva condotto alla scoperta di alcune chicche. Quest’anno due segnalazioni di questo genere. La prima è il racconto della straordinaria libreria che l’americana Beach aprì a Parigi negli anni venti.

“Da gran tempo desideravo una libreria, e questo desiderio era ormai diventato un’ossessione.”

La libreria si chiamava e si chiama (esiste ancora) Shakespeare & Company, che è anche il titolo di questo libro di memorie redatto dalla Beach stessa. La libreria, leggiamo, vide passare tutti gli scrittori di stanza a Parigi in quell’epoca. In quella stanza, concepita come negozio, ma anche come sala lettura, Ernest Hemingway, Ezra Pound, Francis Scott Fitzgerald, Gertrude Stein, George Antheil, Man Ray e James Joyce passarono molte ore. Qui gli aneddoti si sprecano. In quella stanza la Beach, tra l’altro, si innamorò dell’Ulisse di Joyce ancora non pubblicato e sostenne quella pubblicazione presso editori e critici finché non vide la luce.

Il secondo è una biografia che Paolina Leopardi scrisse di Mozart. Immaginate cosa possa aver significato essere la sorella del divino Giacomo e figlia del Conte Monaldo? Paolina ci riuscì senza impazzire, nonostante che per cinquantanni i suoi la promisero sposa a chiunque passasse di là e non pretendesse una ricca dote. Tutti i matrimoni svanirono e lei rimase chiusa in casa fino ai sessantanni, quando finalmente rimase orfana sia di padre che di madre e prese, finalmente, a viaggiare e vivere. In tutto questo tempo chiusa in casa diede prova di energia, tenacia e studio nel tradurre dal francese numerose opere e nel redarre questa breve biografia di un altro genio. Anche in questo caso passione e intelligenza si fondono.

E proseguendo nell’omaggio al genere femminile, come non terminare con l’omaggio alle signore che un altro partecipante al concorso, Maurizio Mancuso, ci ha mandato. E’ una poesia di una autrice francese, contessa Noailles, poco (o punto) pubblicata in Italia, che in uno scatto di ribellione, orgoglio e forse ira si rivolge agli uomini che ha conosciuto e, probabilmente, amato, e dice:

Quando vedo animi senza orgoglio
senza collera e senza passione,
senza nulla che li spinga a piacere;
quando tra gli uomini distratti o pensierosi
nessuno che si ponga sotto il segno del fuoco:
quando osservo torpide le fronti, l’anima nuda,
la promessa d’amore debolmente mantenuta,
l’assenza d’universo nella voce e negli occhi,
voi ai quali ho regalato fino alle stelle il mondo
è una fortuna che mi abbiate conosciuta!

Vi aspetto tutti fra poco per una nuova edizione di Prima i Lettori.