Da Gabriella Ventura riceviamo A. Bajani, Un bene al mondo.

“Quando arrivavano al ruscello, il bambino appoggiava la bicicletta contro il tronco di un albero. Poi cercava dei pezzi di legno e delle foglie, e con quelli costruiva una barca e lasciava che salpasse verso il mare. …”

Dalla presentazione dell’editore:

«C’è l’amore, e c’è la meraviglia. Insomma, tutto ciò per cui vale la pena raccontare la vita».
Michael Cunningham

Viviamo tutti, sempre, nel momento in cui l’infanzia finisce. E non c’è punto piú intenso da cui possa nascere un romanzo. Dentro questa storia ci sono un bambino come tanti, un dolore che l’accompagna come il piú fedele degli amici e una bambina sottile che si prende cura di loro. Ci sono le ferite degli adulti, stretti tra richieste di risarcimento e protezione. C’è soprattutto la scoperta che la fragilità è una ricchezza. Un bene al mondo è un romanzo unico, una storia universale. Dice una cosa semplice, e lo fa con la forza della letteratura: se non nascondi quello che fa male, la vita ti sorprenderà.

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Un bene al mondo racconta di un paese sotto una montagna, a pochi chilometri da un confine misterioso. Un paese come gli altri: ha poche strade, un passaggio a livello che lo divide, e una ferrovia per pensare di partire. Nel paese c’è una casa. Dentro c’è un bambino che ha un dolore per amico. Lo accompagna a scuola, corre nei boschi insieme a lui, lo scorta fin dove l’infanzia resta indietro. E ci sono una madre e un padre che, come tutti i genitori, sperano che la vita dei figli sia migliore della loro, divisi tra l’istinto a proteggerli e quello opposto, di pretendere da loro una specie di risarcimento. Ma nel paese, soprattutto, c’è una bambina sottile. Vive dall’altra parte della ferrovia, ed è lei che si prende cura del bambino, lei che ne custodisce le parole. È lei che gli fa battere il cuore, che per prima accarezza il suo dolore. Un bene al mondo è una storia d’amore e di crescita di un’intensità e di una poesia travolgenti. È una storia universale, perché racconta quanto può essere preziosa la fragilità se non la rifiutiamo. Basta cercarsi su una mappa, disseminare parole per trovarsi, provare altre strade e magari perdersi di nuovo.

Sono molteplici le chiavi di lettura di Un bene al mondo di Andrea Bajani. Si può considerare il romanzo come «un racconto di formazione» che «come ogni racconto di formazione è il racconto di un viaggio: un bambino lascia il proprio paese per la città, lascia il suo essere bambino per diventare un uomo, ovvero per diventare scrittore» (Massimo Recalcati, «La Repubblica» del 17/09/2016); ma può essere interpretato anche come il «racconto della sopravvivenza all’infanzia nella forma distopica di una fiaba» (Niccolò Scaffai, «Il Manifesto» del 11/09/2016, leggi).

«E’ un diario intimo in forma di racconto, è un manuale d’addestramento alla vita, è la cronaca di una terapia riuscita. E’ semplicemente letteratura, come capita raramente di leggere; ci racconta da dentro: parla di noi senza neppure conoscerci. La meraviglia nelle parole, oltre le parole stesse. Toccante, doloroso, fiabesco». (Marco Belpoliti, «l’Espresso» del 25/09/2016)

«Un racconto impersonale, eppure personalissimo che ci consente di stare alla distanza desiderata: possiamo scegliere di guardare da un cannocchiale, come se nulla ci riguardasse, oppure cedere alla tentazione di accarezzare il bambino; una storia apparentemente senza trama eppure con il più complesso degli intrecci: l’esistenza» (Silvia Truzzi, «Il Fatto Quotidiano» del 28/09/2016)

Queste considerazioni aiutano a mettere in luce anche due dei protagonisti del romanzo: la scrittura e l’infanzia, rappresentata dal bambino accompagnato dal suo dolore.

«Le parole sono, insieme al dolore, l’altro grande protagonista di questo libro come di tutti i libri di Bajani. Esse sono innanzitutto un modo di trattare il dolore di esistere. Le parole appaiono là dove il mistero del dolore si fa più fitto e impenetrabile. […] Le parole hanno un rapporto speciale col dolore: possono provocarlo ma possono anche essere il loro rimedio. Non è forse questo il tema stesso della scrittura? La letteratura non suppone forse che la parola possa essere causa di vita e di morte? Ecco perché per Bajani scrivere non è mai un divertissement, non è mai un edonismo privo di responsabilità; assomiglia piuttosto ad un’esigenza del corpo, ad una necessità primaria come mangiare, correre o respirare. Senza dolore la vita non è umana – è la vita di Dio o quella di un giglio -; ma consegnata al dolore senza alcuna distanza la vita si prosciuga e si annienta». (Massimo Recalcati, «La Repubblica» del 17/09/2016)

«All’inizio del suo libro precedente, La vita non è in ordine alfabetico, Bajani ricorda le frasi di un maestro di scuola: “Con ventuno lettere (…) si può costruire e distruggere il mondo, nascere e morire, amare, soffrire”. Così, anche in Un bene al mondo, racconto di sopravvivenza all’infanzia più che di iniziazione o formazione, sono le parole costruite da quelle ventuno lettere a muovere il tempo, permettere la crescita, tenere a bada un dolore che ancora aggredisce: “Per questo tutti i giorni quest’uomo si siede al tavolo, accanto alla finestra, apre un quaderno, apre una pagina nuova, e ce lo fa correre dentro”». (Niccolò Scaffai, «Il Manifesto» del 11/09/2016, leggi)

«Tutta la sua scrittura è cava, come una conchiglia, perché prima di essere un eccellente scrittore Andrea Bajani è un formidabile ascoltatore, una specie di Alëa Karamazov dei nostri giorni. Come Alëa, infatti, Bajani (che è a suo modo uno scrittore religioso, nel senso in cui Stravinsky lo diceva di Paul Valéry) non cerca di raccontare una vita e un mondo in pezzi, non fa risorgere il Romanzo (come ho provato a fare io): conserva quei pezzi, e li ascolta, finché questi non ricominciano, timidamente, a parlare, uno alla volta. Questa attitudine silenziosa, così rara, così unica, è ciò che amo di più in questo scrittore». (Luca Doninelli, «il Giornale» del 01/10/2016, leggi)

Bajani, dunque, affida alle parole la responsabilità di far uscire i fantasmi dall’oscurità, creando un romanzo che esalta l’importanza dell’infanzia nella formazione di un individuo. Essa è coacervo di emozioni e di paure – ereditate sovente dal nucleo famigliare – che non sempre si riescono ad esprimere. Questa età, seppur dolorosa e problematica, è un passaggio essenziale per la formazione di un uomo e della sua personalità.

«Bajani ci insegna quanto sia insensato nascondere le sofferenze, perché è proprio quando riusciamo a far pace con le nostre vulnerabilità che diventiamo più forti» (Carlotta Vissani, «F» del 14/09/2016)

«Il libro di Bajani è ricco di slanci lirici, che si stagliano in un basso continuo in cui prevale la cruda verità – del paesino, della città, dei loro abitanti e della miseria dei rapporti umani, – la necessità di evitare ogni forma di autoinganno, precondizione dell’unica felicità possibile che ci è concessa in questa vita» (Armando Massarenti, «Il Sole 24 Ore» del 11/09/2016)

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«Un bene al mondo non è soltanto una storia, è l’ossatura di tutte le storie, perché dietro ogni adulto che decide di mettersi a raccontare ci sono stati, una volta, un bambino e il suo dolore, non solo nel senso corporale della sofferenza ma in ogni sfumatura etimologica del termine. Così mentre la maggior parte degli scrittori vuole produrre un romanzo originale, Andrea Bajani si ferma e sceglie di scrivere il suo romanzo originario. […] Tutto in questo romanzo è originario, anche l’amore. L’amore a forma di una bambina, lei e solo lei, che resterà come misura per l’amore da grandi, come le formelle dei giochi sulla sabbia. È originario lo stile, essenziale come nella poesia, in cui le parole, anche le più semplici, anche quelle di uso comune, soprattutto quelle, sono scelte e trattate come fossero tutte l’essenza del loro significato. E mentre mette a nudo la verità, non cosa vorremmo accadesse ma cosa è accaduto e accade davvero ai bambini e a noi che lo siamo stati, la sorpresa di Un bene al mondo consiste nel non schiacciare mai il lettore scorrendo lieve, veloce, musicale. È un incessante stare nell’abisso raccontando come può sembrarci se non ne abbiamo paura: un luogo in cui si possono inventare la gentilezza e la scelta anche se nessuno te li ha insegnati, un luogo dove con fatica e costanza si impara a non vergognarsi di sé stessi, e dunque il più autentico dei luoghi possibili».

Nadia Terranova, «Il magazine – Il Sole 24 Ore» del 13/09/2016, leggi

«La tradizione della cosiddetta “favola d’autore” o “letteraria” è dura a morire perché ogni tanto qualcuno, non si capisce nemmeno bene come o perché, azzecca il tono: com’è il caso dell’ultimo libro di Andrea Bajani. Facciamo esperienza diretta, in queste pagine, di quello stato di grazia della lingua invocato da Cristina Campo come supremo criterio di giudizio».

Emanuele Trevi, «Corriere della Sera» del 25/09/2016