Da Fernanda Sacchieri riceviamo:
ELOGIO DELL’IMPERFEZIONE di Rita Levi Montalcini
Garzanti Editore – 1987
Capitolo 5. Esperienza medica tra i profughi di guerra
pagg.113 – 114
“…. In uno stato d’animo ben diverso da quello con cui ci eravamo presentate con le carte d’identità false per ritirare le tessere annonarie, ritornammo negli uffici del comune, per mostrare i veri documenti che avevamo tenuto gelosamente nascosti nel periodo della vita clandestina e ottenere il riconoscimento della nostra identità.
Il mio diploma di laurea mi diede il diritto al distintivo della Croce Rossa che mi permetteva in qualità di medico di circolare anche nelle ore del coprifuoco. Con esso mi presentai subito al servizio sanitario alleato, che mi mandò con altri tre colleghi a svolgere quella che sarebbe stata la mia più intensa, più sofferta e ultima esperienza medica.
Abbandonata Firenze e l’Italia centrale, i combattimenti tra i partigiani, le armate anglo-americane e quelle tedesche si riaccesero sugli Appennini a sud di Bologna, su quella che passò alla storia come “la linea gotica”. La popolazione di quelle alture tra la Toscana e l’Emilia-Romagna, dall’autunno del 1944 all’inverno del 1945, si trovò esposta a continui bombardamenti e battaglie. Le zone del fronte in continuo spostamento venivano percorse e rastrellate dai camion alleati che portavano intere famiglie di contadini a Firenze. Venivano convogliati a centinaia in rifugi provvisori. Con il figlio di Giuseppe Levi, Alberto, mio compagno di università, e di altri due medici greci e tre infermiere, ero stata addetta al servizio sanitario di uno di questi accampamenti per sfollati. Era una vecchia caserma alla periferia della città, in pessimo stato, fatta di enormi capannoni, con tramezzi che separavano i settori un tempo adibiti a stalle e a dormitori dei soldati. Il terriccio del pavimento era ricoperto di paglia e i letti consistevano in rozzi materassi di crine disposti uno vicino all’altro. Il piano superiore serviva da magazzino alimentare e da infermeria e ambulatorio, con una cameretta per il medico di guardia. L’opera delle infermiere si limitava all’assistenza degli ammalati, non a quella dei profughi.
La forzata inattività del periodo clandestino aveva acuito in me il desiderio di svolgere un’attività utile, perciò mi dedicai con entusiasmo al duplice compito di medico e di infermiera. Aspettavo con ansia i camion che arrivavano sempre nelle ore notturne, riversando nel cortile della caserma il loro carico di sfollati. Il mio compito consisteva nel sistemarli, dopo aver controllato il loro stato di salute. Le conseguenze della denutrizione e del freddo erano evidenti soprattutto nei lattanti e nei bambini molto piccoli.Nella mia breve esperienza medica prima che le leggi razziali mi allontanassero dalle corsie ospedaliere, non avevo mai avuto occasione di assistere
a uno spettacolo così doloroso. Molti dei lattanti arrivavano in uno stato estremo di disidratazione. Li portavo all’alba nella clinica pediatrica per assistere impotente allo spegnersi di quelle piccole vite che erano ormai entrate in uno stato preagonico. In quello stesso periodo vivevamo in casa ore di inquietudine per il primogenito di Gino e Mariuccia, Emanuele, nato il 29 maggio, alla vigilia dei bombardamenti di Firenze. La difficoltà di allattarlo della madre, che era stata qualche settimana dopo il parto ricoverata in clinica, e quella di procurarci il latte, erano state superate soltanto grazie all’arrivo degli alleati e alla distribuzione del latte in polvere. Ma per i piccoli profughi dell’Emilia-Romagna, il rimedio era arrivato troppo tardi.
Verso la fine dell’inverno un numero sempre crescente di rifugiati denunziò uno stato generalizzato di malessere, febbre e disturbi del sistema digerente. Nella promiscuità in cui vivevano, la malattia si diffuse in pochi giorni assumendo un carattere epidemico. Ci rendemmo conto con terrore che si trattava di tifo addominale, una malattia in quel periodo endemica in Italia e per la quale, prima della scoperta degli antibiotici, non c’erano rimedi validi. L’isolamento dei casi più gravi, dati i pochissimi letti dell’infermeria, era un’impresa impossibile. …”