Da Marco Grando riceviamo F. Von Schirach, Caffè e sigarette.

Inviandoci la segnalazione Marco ci scrive: “Von Schirach è un penalista tedesco che scrive splendidi racconti tratti dalla casistica della sua professione. Sempre illuminanti sui comportamenti degli esseri umani.”


“Dopo il pensionamento, lui un po’ alla volta diventa insopportabile. sera dopo sera si ubriaca, si rade raramente, la moglie deve implorarlo di farsi la doccia almeno una volta alla settimana. Non lo tollera quando parla, non riesce più a guardarlo. >Cos’ho ancora da desiderare?> chiede spesso lui. Per lei è il contrario. Da quando non deve più occuparsi della casa e dei suoi quattro figli, va a teatro, a conferenze e a concerti, legge i giornali online, incontra vecchie amiche ed esce a passeggio, In giardino, davanti alla loro villetta a schiera, pianta delle aiuole.”

Dalla presentazione dell’editore:

Caffè e sigarette è l’opera di Ferdinand von Schirach accolta, al suo apparire in Germania, da un grande favore di pubblico e di critica e salutata come uno dei migliori libri di autofiction della narrativa tedesca contemporanea. Una definizione che coglie in parte una indiscussa verità, quella per la quale Schirach parla, in questo libro, di sé e della propria vita con gli strumenti propri della fiction, ma che non traduce pienamente l’ambizione letteraria che alimenta queste pagine.
Schirach rifugge dalla presunzione dell’autorappresentazione, ben conscio dell’inafferrabilità del Sé, persino della sua inattendibilità, se separato dalle circostanze, dagli eventi, dalle situazioni e dalle vite altrui che lo determinano come tale.
Tratta dunque della propria esistenza laconicamente, per via indiretta e per interposta persona, come si suole dire. Ripercorre rapidamente gli odori e i colori della propria infanzia, la tragedia della morte del padre, vissuta a quindici anni, la presenza sempre incombente, come un macigno ineliminabile, del fantasma del nonno Baldur, i fumatori incalliti che sullo schermo e nella vita reale hanno acceso la sua immaginazione – da Jean-Paul Belmondo, che in À bout de souffle muore sul boulevard parigino con la sigaretta in bocca, a Helmut Schmidt, che si faceva ovunque beffe del divieto di fumo –, gli incontri rivelatori dell’insensata finitezza della vita, come quello con l’anziana e ricca signora che non riesce a perdonare il suo amante, colpevole, ai suoi occhi, di essere morto per una ridicola puntura di vespa durante un picnic.
Scene, personaggi ed eventi suggestivi, attraverso i quali traspare il personaggio Ferdinand von Schirach e, soprattutto, si rivela la sua pacata malinconia, quella struggente consapevolezza della fragilità dell’esistenza umana e dei miti crudeli che tentano di rimuoverla e che traversano da cima a fondo la storia tedesca. «Amare sé stessi è chiedere troppo» suona un passo di queste pagine dedicato a Imre Kertész, scampato ad Auschwitz da adolescente, ed elegantissimo negli ultimi anni della sua vita. «Ma la forma deve essere preservata, è la nostra ultima fermata». Impossibile amarsi se si è visto l’orrore di cui sono capaci gli esseri umani. Resta, però, sempre lo stile, la forma in cui si rifugia la nobiltà della vita.