Da Alessandro Litta Modignani riceviamo:

Gabriele Romagnoli – “Un tuffo nella luce” – Mondadori (2010) pagine 99-100

E così questa è New York.
Un gigantesco supermercato, un puntaspilli in cui sono conficcati i palazzi, uno spreco di luci, colori, gesti. Lo colpisce il rumore di New York. Lo offende. Dopo due anni nella bolla di cristallo è insopportabile. E’ inutile: a cosa serve questo caos? Dove stanno correndo quelle auto? Perché le donne indossano scarpe da ginnastica per camminare più in fretta e lasciano sbucare dalla borsa tacchi a spillo per procedere più sensualmente una volta arrivate? Quale tristezza cola negli occhi di chi se ne sta in camicia poco distante dall’ingresso di un palazzo a fumare una sigaretta come se sostasse in un’oasi? Questa è la vita che hanno voluto, o almeno accettato? Questo è ciò che difendono? Mentre cammina vede la città mutare, gli abbigliamenti modificarsi, a blocchi di venti isolati per volta, proprio come fossero gli scaffali di un supermercato. La fila dei bancari, quella degli aspiranti artisti, di qua è aggrappato il ceto medio, di là i privilegiati inamidati. Ed ecco i caffè che si riempiono di uomini e donne che dovrebbero risultare alternativi, ma sono fatti in serie. Vanno in palestra, scopano in giro, alternano euforia e delusione, vedono da anni uno psicologo o una psicologa, che hanno cambiato più volte, dosano con qualche sapienza ironia e cinismo, leggeri, quasi impalpabili eppur così vissuti, fanno sfoggio improvviso di sensibilità risultando nelle circostanza credibili quanto George Bush nell’esprimere preoccupazione per l’educazione dei bambini. Se dicono “amore” è una parola che traducono da una lingua straniera. Si cercano, ma più spesso cercano, traendone maggior godimento, di corrompere gli altri, quelli che avrebbero un piano, qualche semplice aspettativa, una fascinazione minima per la trasgressione, la più sopravvalutata delle condizioni. Vuoi trasgredire? Impara a camminare sul filo teso, se ci riesci.
Bevono, chinano la testa di lato, malinconici. E sono, nessuno escluso, artisti incompresi. A quell’età. Il tempo fa il suo giro: a diciannove anni sei incompreso, a trentanove, o quanti ne hai, ti hanno capito tutti benissimo, i lettori, gli spettatori, editori e produttori, gli uomini e le donne che ti hanno provato e non si sono fidati, chi non si avvicina manco più perché ha vissuto già abbastanza da aver riempito il catalogo delle figurine e averti incollato dove meriti: di faccia sul fondo del cestino.

romagnoli

 

dalla presentazione dell’editore:

Benjamin Devereaux, detto Benny quando ancora qualcuno lo chiamava per nome, ha venticinque anni e vive da eremita a Manhattan in un attico con vista sulle Torri Gemelle. Anche se ha regolato la propria esistenza come voleva, con tutte le precauzioni per non soffrire mai più, non sorride. Anche se vive di rendita, non sorride. Per farlo c’è bisogno di qualcun altro e Benny ha scelto di non aver bisogno di nessuno. Quel che gli serve lo ordina al telefono o premendo tasti al computer. Così si procura il cibo. Così rifornisce il suo uniforme guardaroba. Così riceve a domicilio un nuovo cd, un nuovo dvd, un nuovo libro, ogni volta che il precedente ha esaurito la sua funzione ed è stato eliminato. Così soddisfa i desideri sessuali. Così ha avuto ogni cosa che ha posseduto, compreso il telescopio con il quale spia, un piano al giorno, le vite degli altri nelle Twin Towers. I suoi genitori sono morti in un incidente d’auto. L’eredità è stata un biglietto vincente della lotteria. Cinque milioni di dollari. Con quelli, Benny vuole vivere dieci anni alla grande, per come lo può intendere lui, e poi sparire senza lasciare traccia né sofferenza. Se non andrà così è perché il caso è incontrollabile. E pure l’animo umano. Nessuno conosce il primo. Nessuno conosce l’animo di Benny. L’unica a esserci andata vicino è stata Kim…