Fernanda Sacchieri ci segnala:
SAUL BELLOW – Il re della pioggia
Oscar Mondadori Editore – 1989
Traduzione di Luciano Bianciardi
Introduzione di Vincenzio Mantovani
In copertina: Richard Lindner, “Shoot 1”, 1969
Parigi, Galerie Paul Bernard
IV di copertina
Premio Nobel per la letteratura nel 1976, considerato da molti il più grande narratore americano vivente, Saul Bellow ha dichiarato a proposito del Re della pioggia: “Il mio romanzo é stato capito da pochi nellla sua essenza che é comica. Troppi americani credono che la serietà li dispensi dall’esercizio dell’intelligenza”. E in effetti la vicenda di Eugene Henderson, che giunto a cinquantacinque anni pieno di donne, di figli e di denaro vede intorno a sé “solo dolore”, sicché prende un aereo e sbarca nel “cuore di tenebra” del Continente Nero alla ricerca di verità elementari sul mondo e su se stesso, é condotta con grande fantasia allegorica ma soprattutto con esuberante umorismo: ciò che ne scaturisce é un ritratto fortemente comico, ma insieme inedito e corrosivo, del tradizionale “innocente” americano.
Un’opera scritta con divertimento per essere letta con divertimento, che ha avuto inoltre la sorte insolita e fortunata di essere stata tradotta splendidamente in italiano da uno scrittore come Luciano Bianciardi che del protagonista aveva la stessa inesauribile fame di vita.
pagg. 117 e 118
La scala esterna, larga, comoda, girava attorno all’edificio: ci trovammo dall’altro lato. C’era un albero, che oscillava e scricchiolava perché diversi uomini erano occupati in una strana faccenda: sollevavano grandi massi fin sui rami con corde e rozze pulegge di legno. Urlavano a quelli di sotto che tiravano su i massi ed i volti scintillavano dalla luce del duro lavoro. Horko mi disse – ma io non compresi se lo credeva davvero – che c’era un rapporto fra pietre e nubi, per la pioggia che essi volevano far cadere per mezzo della cerimonia ventura. Parevano tutti fiduciosi che oggi sarebbe caduta la pioggia. La sera prima il funzionario con quella sua parola, “wak-ta” e le dita, aveva espresso l’acquazzone. Ma in cielo non c’era nulla. C’erano soltanto, e lontani quei massi rotondi sui rami, che a quanto pare dovevano rappresentare le nubi cariche di pioggia.
Giungemmo al terzo piano, dove aveva il suo alloggio il re Dahfu. Horko mi guidò per stanze larghe, ma basse di soffitto, che parevano sostenute chissà come dal disotto. I travi io non li avrei garantiti. C’erano tende e drappi appesi. Ma le finestre erano strette e poco si vedeva, se non quando irrompeva un raggio di sole a mostrare una fila di lance, un basso sedile, o la pelle di un animale. Alla porta dell’appartamento regale, Horko se ne andò. Io non me l’aspettavo e dissi: “Ehi, ma dove va?” Ma una delle amazzoni mi prese per il braccio nudo e mi spinse oltre la porta. Prima di scorgere Dahfu avvertii numerose donne – venti o trenta mi parvero a prima vista – avvertii la densità delle donne nude, la loro volupté (in questo caso serve solo la parola francese), che mi grava addosso d’ogni parte. Il calore era grande e l’odore predominante era femminile. L’unica cosa paragonabile a tutto questo, in quanto a temperatura e strettezza, era un’incubatrice: anche il soffitto basso suggeriva questa associazione. Seduta presso la porta su di un alto sgabello, che somigliava a quelli che un tempo usavano i contabili, c’era una vecchia grigia, pesante, con la tunica da amazzone e un berretto militare che portavano i soldati italiani alla fine del secolo. Mi strinse la mano a nome del re.