F. Sacchieri: La sorella, S. Marai, Adelphi (trad. A. Sciavocelli)
Da Fernanda Sacchieri riceviamo: “….. Ormai percepivo il dolore nel mio corpo al modo in cui mia madre percepisce il figlio che porta in grembo…”
Così cominciò. Dei mesi successivi ricordo solo pochi dettagli confusi. La malattia, come ogni altra condizione umana, riesce assai in fretta a creare una sorta di ordine intorno a sé. Chissà, forse, nel braccio della morte, anche un condannato alla pena capitale ha una specie di tabella di marcia, suddivide il tempo che ancora gli resta; ora scrive una lettera, ora mangia; poi riceve una visita, e pensa a tutto ciò secondo una determinata successione. Le situazioni fuori dall’ordinario si strutturano secondo un ordine preciso. Al mattino, quando mi svegliai dall’effetto soporifero dell’iniezione, il personale della clinica si stava già dando da fare intorno a me, organizzando il ritmo della malattia: mi lavavano, mi nutrivano, mi misuravano la temperatura; poi si passava alla pulizia della stanza; qualcuno cantava piano in corridoio; il muro di cinta che scorgevo dalla finestra rifletteva la luce splendente del sole di quella mattina autunnale. Anche il dolore era già diverso rispetto alla notte precedente. Era lì, come ebbi modo di stabilire subito, con avida curiosità, nel momento stesso del risveglio; perché stranamente siamo portati a farci carico di tutto ciò che é nostro, anche quando é terribile. Quel dolore era mio, e dunque subito, al risveglio, ci eravamo salutati. Se era al suo posto? Precisamente al suo posto, dalle parti dello stomaco. Ma di mattina mi faceva soffrire in maniera diversa, come si soffre di giorno, anzi alle prime luci dell’alba: perché così come l’amore è diverso di mattina rispetto al pomeriggio o alla notte – mutando di intensità, atmosfera e intimità -, anche il carattere della malattia cambia a seconda delle fasi del giorno. Ora il dolore é apatico, come se fosse sceso a patti con il giorno. Al mattino non riesce a mostrare la sua vera forza e ogni sua peculiarità. Ora viene il barbiere, ora, con la faccia riposata, il medico di turno a portare qualche notizia dalla città o dal mondo: e in queste ore la malattia é costretta ad ammansirsi. Ormai percepivo il dolore nel mio corpo al modo in cui mia madre percepisce il figlio che porta in grembo: non lo sentivo come una ferita o un tumore, era qualcosa di diverso dall’effetto di una lesione o di un urto. Era una specie di essere dotato di coscienza. E questo essere viveva di vita propria all’interno della mia vita. E ha anche un suo senso, pensavo, benché piuttosto contorto.