Ho ricevuto da Claudio Cherin la recensione di W. Faulkner, Non si fruga nella polvere.
Non si fruga nella polvere (ottimamente ritradotto da Roberto Serrai, Adelphi, pp.235 € 19,00) uscì nel 1948, scritto da William Faulkner, dopo sei anni di silenzio e un anno prima del Nobel, è l’unico romanzo poliziesco dello scrittore.
Il romanzo ha come protagonista un ragazzo di nome Charles Allison, detto Chick, che nelle prime pagine rischia di annegare in un fiume gelato, mentre va a caccia di conigli. Si salva grazie a un uomo che compare sulla riva del torrente e del quale Chick vede, all’inizio, solo gli stivali. Lentamente, lo sguardo gli risale fino a mostrare il volto: è Lucas Beauchamp, ben noto in città.
Lucas Beauchamp non è un nero «come gli altri» nella città di Jefferson, Mississippi – parte dell’immaginaria contea faulkneriana di Yoknapatawpha, dove sono ambientati tutti i suoi romanzi – Lucas è il tormento degli abitanti perché non si comporta come tutti gli altri «negri».
Ha il suo appezzamento di terreno, una casa e una famiglia. Si veste bene, ostenta una pistola infilata in una fondina che porta ai fianchi, ben visibile e che ha acquisito legalmente, nonché uno stuzzicadenti d’oro dal quale non si separa mai. Ha un portamento austero, i bianchi non lo potrebbero mai chiamare «boy» come fanno con gli altri neri. Anche perché il suo padrone lo ha reso libero.
Per questo, negli anni trenta, quando si svolge la storia, nel profondo Sud degli Stati Uniti non è possibile che un nero possa non essere un bracciante misero.
Anche per questo Chick Allison sa di essere in debito con Lucas. Cerca di pagargli il pranzo con settanta centesimi che ha in tasca e l’ospitalità. Lucas non li vuole e Chick, frustrato per questo li scaglia a terra. Lucas non si scompone, li fa raccogliere dai suoi figli e li rimette in mano a Chick.
Qualche tempo dopo Lucas, accusato di avere ucciso un bianco di nome Vinson Gowrie, si rivolge a Chick per chiedergli di andare a chiamare suo zio, l’avvocato Gavin Stevens.
Colpevole o meno che sia, tutti pensano che l’abbia fatto davvero, le ragioni per cui è colpevole o innocente non possono veramente essere comprese dai bianchi di Jefferson. Quello che è intollerabile è che in Lucas ci sia qualcosa che ‘trascende la sua razza’. Anche se nessuno ha visto Lucas uccidere Vinson Gowrie, anche se nessuno si chiede che motivazione potesse aver avuto, tutti sono convinti nel profondo che sia colpevole.
Linciare Lucas è un atto esclusivamente politico, compiuto da chi la politica non sa nemmeno cosa sia. A Jefferson c’è un nero che non si comporta da nero. Per questo va punito.
L’avvocato Gavin Stevens accetta di difendere Lucas: non gli importa sapere se Lucas sia innocente. Costruisce la difesa senza nemmeno starlo a sentire. D’altra parte, Lucas non si dichiara mai innocente. Vuole che i fatti parlino per lui, che ci sia un’indagine vera. E l’indagine, che è la vera «storia» del libro, è anche la sua parte più interessante, con una strana virata da parte dell’autore verso il ‘romanzo per ragazzi’ (alla Tom Sawyer) in cui un coraggioso sedicenne, con l’aiuto di un’intrepida vecchietta, si intestardisce a scoprire «la verità». E scoprono una tomba vuota, una pistola in possesso di Lucas che non può aver ucciso e un altro cadavere, quello di Jack Montgomery, uno con il quale Vinson Gowrie derubava suo padre, uno dei ricchi proprietari di legno della contea.
Alla fine non c’è confessione, non c’è un colpevole che va in prigione. Stevens ricostruisce i fatti come sono andati. La giustizia di Faulkner è una giustizia parziale. Ognuno è colpevole a suo modo. E in qualche modo il libro rimane aperto, come rimangono le ferite di un popolo e di una terra (quella del Sud) che ancora piange i suoi morti confederati. E vive nel sogno ormai spazzato via dai Nordisti, che sono giunti e hanno distrutto un mondo.
A Faulkner il merito di aver raccontato una storia che ha al suo interno il fango degli Stati del Sud, quella passione e quei complessi sentimenti che come in Dostoevskij attanagliano l’uomo. Il tormento di una verità ‘parziale’, una verità troppo umana in cui anche il colpevole e l’innocente non lo sono mai del tutto. Fino in fondo.
I personaggi si muovono in maniera, alle volte, poco comprensibile. Faulkner entra nelle pieghe della vicenda fino al punto di diventare rappresentarne lo spirito, le facce, il gruppo pronto a linciare e a raccogliere subito dopo soldi per la famiglia. Il flusso di coscienza, la polifonia, non sempre permettono al lettore di seguire la storia nella sua linearità, ma è questo quello che vuole lo scrittore che in questo modo una realtà che si perde nelle ramificazioni degli eventi. Faulkner costruisce un flusso di parole-tempo, in un fiume alla cui fonte non si può risalire, testimone di una realtà non testimoniabile. Dove il ritmo delle lunghissime frasi che si accumulano come onde prima o poi giungerà alla conclusione della storia.
Dire ‘perché sì, è andata così’ nei romanzi di Faulkner, in quelli di Gadda o in Catarescu non serve poi a molto.
Dalla presentazione dell’editore:
Una volta, alla domanda se leggesse romanzi gialli, Faulkner replicò sornione: «Quando sono buoni come I fratelli Karamazov». Al pari di Dostoevskij, amava infatti trasfigurare e usare ai suoi fini la struttura del poliziesco – quasi che la letteratura non fosse altro che un polveroso tribunale, nascosto tra le quinte del profondo Sud americano. Questo romanzo del 1948 ne è l’ennesima riprova. Nella mitica contea di Yoknapatawpha – dove Faulkner ambientò molti dei suoi romanzi e racconti più celebri –, il vecchio nero Lucas Beauchamp è accusato di aver ucciso un bianco, e rischia il linciaggio. Il solo disposto ad aiutarlo è un ragazzo bianco, Chick, che non esita – accompagnato dall’amico nero Aleck Sander e da una vecchia zitella forse leggermente tocca – a riesumare il corpo della vittima come Lucas gli ha chiesto. Li attende una scoperta sconvolgente, che cela una torbida realtà. Ma a catturare e trascinare il lettore, assai più del ricorso al murder mystery, sarà il mirabolante «flusso di coscienza» di Chick, intramezzato da superbe descrizioni di una natura bella e crudele, da brani risentiti sulla Guerra Civile, da brevi, convulse scene d’azione: una «rappresentazione a massimo potenziale», per usare le parole di Emilio Cecchi, che sigilla sulla pagina lo stile folgorante, unico di Faulkner.