Da Benedetta Manghi riceviamo S. H. Amigorena, Una infanzia laconica

Benedetta del libro scrive: “Un’infanzia laconica, libro potente e ostico. Con pagine che rileggi assetato di farle tue fino in fondo perché ti urlano dentro e altre che rileggi per comprenderle. Di Amigorena avevo già letto Il ghetto interiore, che ho trovato poesia pura. Qui il protagonista ha scelto di parlare, nella vita, attraverso la scrittura e non con l’oralità. Troppo ha di dentro, troppo esilio, troppo oblio, troppi mondi diversi, troppa memoria: cerca di ricreare un ordine per non soccombere.


“…mi sono detestato, mi sono adorato- poi, siamo invecchiati insieme”

“L’abuelo Vicente, il cui cognome non avrei mai saputo se glielo avesse attribuito E.T.A. Hoffmann con un intento puramente poetico o un qualunque altro burocrate tedesco per semplice insolenza verso la nobiltà austriaca, portava spesso un cappello.

Nei primi anni Venti, quando passeggiava per le strade della sua Łódź natale confidando gli ultimi episodi delle interminabili liti con il padre all’orecchio, che molti anni dopo sarebbe stato uno dei piú apprezzati al mondo, dell’amico di famiglia Arthur Rubinstein, nella vana speranza che intervenisse in suo favore, gli capitò sott’occhio chissà come un supplemento del quotidiano La Nación che celebrava i meriti di un giovane paese latino-americano.

Smise subito di preoccuparsi di suo padre, si fece prestare dall’ancor giovane pianista i soldi per il biglietto e partí all’istante.

Arrivato in Argentina, poiché decisamente si circondava solo di celebrità, l’abuelo Vicente visse nella stessa pensione di Witold Gombrowicz, suo compatriota e perfetto coetaneo, e lo frequentò quando quest’ultimo vendeva cravatte in calle Florida, ad appena pochi metri di distanza da un altro venditore ambulante, Aristotelis Onassis.

Anche mio nonno avrebbe conosciuto, come il greco, rovesci finanziari – da bambine, a seconda degli anni, le sue tre figlie andavano in sinagoga per la festa di Rosh haShana vestite come principesse (abiti di tulle bianco, scarpe nuove, nastri di seta selvaggia) o per mendicare vestite di stracci − rovesci finanziari di minore portata, certo, ma che rischiarono di avere sulla mia esistenza un’influenza ben piú grande di quelli di Onassis. Tuttavia non sarei nato a Punta del Este.

Quei rovesci finanziari, gli unici eventi significativi nell’esistenza dell’abuelo Vicente, avrebbero determinato il luogo mitico della mia nascita senza però cambiarne, come il destino non fa mai per gli eroi, il luogo reale.

Perché possiate capire tutto ciò che di grottesco si cela nel mio attaccamento a Punta del Este, mi scuso di dover tornare indietro di alcuni anni, risalendo il tempo al di là dei miei ricordi, convocando gli echi di quelle memorie esterne e volontarie che so essere menzognere.

Il demone del gioco possedeva da sempre l’abuelo Vicente, ma fu singolarmente potenziato durante la Seconda guerra mondiale.

Negli anni Quaranta Buenos Aires fioriva, l’opulenza e l’euforia di trovarsi lontano dal campo di battaglia prolungavano le notti umide e moltiplicavano le possibilità di raffinatezza e di lussuria.

Depravazione, lascivia, piaceri si accalcavano agli angoli delle strade buie. La maggior parte degli argentini pagava quei piaceri a caro prezzo: scambiavano la notte per il giorno e il giorno per la notte senza pensare minimamente a ciò che preoccupava i due terzi dell’umanità.

Fino alla fine della guerra, e nonostante le lettere di sua madre, Gustava Goldvag, che gli raccontavano la vita nel ghetto, il nonno continuò a credere che ci fosse ancora speranza, che avrebbe trovato il modo di far venire in Argentina tutta la famiglia, che sarebbe stato il loro salvatore, che gli oscuri motivi delle liti con suo padre che lo avevano spinto ad andarsene dalla Polonia sarebbero svaniti con un colpo di bacchetta magica.

Da buon ebreo, perpetuò quella caratteristica che oggi è considerata una tara, quella qualità che come tante altre va perdendosi da quando uno Stato riunisce quel popolo costituzionalmente disperso: l’ottimismo.

Ai tavoli di poker in fumosi caffè del quartiere di Once, ogni sera, a mezzanotte, ritrovava altri tre polacchi e un tale che vendeva dritte sulle corse, e cosí trascorsero le ore occulte della Seconda guerra mondiale a giocare a carte, una notte dopo l’altra, mentre la domenica era riservata all’ippodromo di San Isidro e alle sue corse di cavalli nostalgiche di un geniale fantino, Viejo y Peludo.”

Dalla presentazione dell’editore:

La vita del protagonista di queste pagine è stata in apparenza semplice: non ha quasi mai parlato, ha solo scritto, e la scrittura è stata la spina dorsale della sua esistenza, l’unico modo per sottrarsi al silenzio. Come suo nonno, protagonista del Ghetto interiore, negli anni Venti si era lasciato alle spalle Chełm, la città polacca della sua infanzia dove tutti parlavano yiddish, per raggiungere l’Argentina, cosí Santiago Amigorena, a fine anni Sessanta, compie, con la sua famiglia, il viaggio in senso inverso: da un’America Latina dalla democrazia sempre piú fragile verso l’Europa, e piú precisamente la Francia. A dodicimila chilometri di distanza, arroccato nel «ghetto interiore» di un fragoroso silenzio, suo nonno si era trovato ad assistere allo strazio della sua famiglia per mano nazista. Santiago, da parte sua, cresce rinserrato in un’afasia totale e, anni dopo, è spettatore, muto, della cancellazione violenta di un’intera generazione di argentini. L’esilio, si sa, può offrire mille possibili anime identitarie, ma nessuna da poter fare propria, da poter abbracciare definitivamente. L’anima rimane straniera per ogni esule. Dove trovare dunque una patria se non nella lingua che, proprio perché non è «madre» può farsi strumento di grande libertà?
Attraverso una scrittura scarnificata, nitida di chi ha voluto, o dovuto, abbandonare la lingua natia adottandone una nuova, al modo di Jan Potocki, Samuel Beckett, Agota Kristóf e molti altri prima di lui, Santiago Amigorena si affida in queste pagine al «mestiere macabro di chi dissotterra i ricordi», alla necessità della memoria ma anche dell’oblio – borgesianamente il solo perdono e la sola vendetta –, in un’autofiction che si fa vera e propria autobiografia dell’anima.

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